Riparare il tempo

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view post Posted on 24/6/2009, 10:55
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titolo: Riparare il tempo
autore (con link al profilo): Ilaria.
genere: introspettivo
racconto: Si sentiva perduta. Il cuore le pesava.
Nonostante percepisse di avere ormai solamente un guscio vuoto stanco dei sentimenti che l’avevano attraversato sino a quel momento, la sua stessa presenza all’interno del corpo le pesava come non mai. Se non l’avesse avuto avrebbe potuto sentirsi meglio? Chi lo sa… nonostante qualsiasi pensiero le attraversasse la mente e le domande che si poneva, nessuno le avrebbe dato risposta. Quindi quella tortura era gratuita ed inutile. Ma lei cos’altro poteva fare? Appoggiare la propria fronte al freddo vetro della finestra, donare le proprie lacrime alla nebbia che le impediva di ammirare il notturno paesaggio cittadino.

E poi… impotenza, solamente.

Sentirsi vuota, perduta, senza via d’uscita. A pensarci le si mozzava il respiro in gola. E piangere, e disperarsi, e sentire il bisogno di qualcuno che, accarezzandola con amore, la consolasse e le dicesse che non tutto era perduto… inutile. La realtà la circondava, bella e crudele com’era in quegli istanti. Cristallizzata in gelidi respiri, rinfacciati da una barriera trasparente.
Voleva urlare, disperarsi, piangere guardando in faccia suo padre, scagliarsi contro la causa del suo male, accasciarsi a terra e lasciarsi morire dal di dentro. Voleva queste e mille altre cose, ma non riusciva a fare nulla. Nemmeno stare in piedi nella solitudine.

La bianca nebbia al di là della finestra pungeva il suo sguardo come le lacrime che nascevano e cadevano, formando lunghi e caldi solchi bagnati lungo le guance fredde mentre dolorose fitte le divoravano la lucidità. E allora lasciava che le si annebbiasse la vista, mentre le sue volontà si abbandonavano ad una nera marea che la privava di qualsiasi senso e della voglia di avere voglia.

Se almeno fosse riuscita a piangere, avrebbe trovato il modo di sfogare quella frustrazione che, viscida, la avvolgeva con le sue pericolose spire. Di solito non faceva altro, la sera. Sfogava la delusione e le sue speranze attraverso perlacee lacrime che, infantili, solcavano le sue guance. Dedicava però ad esse solamente pochi minuti, prima di tornare alla vita.
Ma ora, in quell’istante, in quel frangente, non riusciva nemmeno a far quello, a piangere. Si sentiva peggio di una bambola: inutile.

Inutile, inutile, inutile.

No, non era la parola adatta.

Sbagliato, era tutto sbagliato. Non avrebbe dovuto provare quelle sensazioni, la rendevano pazza.

Perché?

Un’unica domanda. Nessuna risposta. Nessuna certezza.

Raggomitolata in sé stessa, sdraiata sul pavimento in posizione fetale, cercava di dare un senso a tutto: alla stanza in cui viveva otto ore al giorno, al bisogno che sentiva, allo scopo che cercava di avere.
Non si sentiva a casa, nel luogo in cui era. Da nessuna parte percepiva quella sensazione di familiarità che avrebbe dovuto scaldarle il cuore.
Forse era esattamente ciò di cui aveva bisogno. Di sicuro, era qualcosa di simile.

Casa.

Sì, era esattamente ciò che cercava. Il significato della parola casa.
Dov’era la sua? Di certo non dove viveva in quel momento. Non ci stava male, ma l’abitudine era diventata così pesante da rinchiuderla in quella gabbia di quotidianità e imprigionarla in un moto sempre uguale.

Monotonia.

Eppure lei amava la vita, e ciò che essa le dava. Ogni giorno di più si riteneva fortunata per le sensazioni che provava. Paura, tristezza, imbarazzo, esaltazione, gioia. La facevano sentire viva, attraverso esse assaporava la vita, la rendevano degna di essere vissuta. Come era giusto che fosse.
Ogni volta che camminava per la strada o girava in bicicletta sentiva la necessità di alzare il viso e ammirare il cielo blu cobalto, assaporare il profumo di un fiore e ammirare uno scatto di realtà.

Amava vivere.

Ma la sera, quando l’alternativa alla sua stanza era la buia notte, non faceva altro che bagnare le sue guance e riempire la mente di squallidi pensieri.
E a quel punto accendeva la radio. Who Wants to Live Forever. I Queen. Le Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen. L’Hallelujah di Jeff Buckley. Chiudeva gli occhi e le ascoltava. Era come se il suo cuore cessasse di battere mentre il suo corpo manteneva tutte le sue funzioni vitali. Rimaneva importante solamente esistere per ascoltare quelle melodie, quelle voci, quelle parole. Per ascoltare e cogliere ogni minima sfumatura di quelle splendide melodie. Tutto il resto veniva da sé.

La consapevolezza che quei pensieri che non avrebbero avuto ragione di esistere sarebbero prima o poi cessati, che la vita nonostante tutto non smetteva di ammaliare i suoi sensi, che ogni giorno, ancora, avrebbe trovato uno e mille motivi per mostrare un nuovo sorriso.
E prima o poi avrebbe cancellato quel senso d’incompleta sazietà che provava.

Prima o poi avrebbe cancellato quelle lacrime. Stupide. Bastavano pochi minuti e la vita avrebbe ripreso a scorrere come prima. E domani sarebbe ricominciato, tutto come prima. Con straordinaria e quotidiana imprevedibilità.

Domani.

Quel momento, ora, era per lei. Il resto, domani.
 
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boleyn`
view post Posted on 25/6/2009, 13:50




mi piace, non è stata una lettura semplice vista l'angoscia che il tuo scritto trasmette, ma la tua storia mi è piaciuta davvero tanto, è accessibile poichè i sentimenti provati possono attanagliare chiunque, e anche come stile è piuttosto fluido, le pause sono strategiche e ben congeniate, complimenti!
 
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1 replies since 24/6/2009, 10:55   131 views
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